L'Onagro Maestro |
::TRANSOXIANA:: |
"Così nascono le immagini anche nel sole dell'Arasse..."1
Così sentivo iniziare Gianroberto Scarcia in uno dei suoi memorabili interventi su tematiche, peraltro a lui particolarmente care, ai confini tra l'oikumene iraniana e la Subcaucasia2, in anni ormai perdutamente lontani in cui il fascino intellettuale e umano di Gianroberto maestro non poteva non colpire chiunque, se non fosse per l'ansia di contrastare e contestare.
Qell'incipit mi colpiva, non solo per la sua vibrante e scarna poeticità, se fra gli inesauribili incanti della poesia possiamo pure annoverare quella di fermare il tempo e di muovere l'empireo. La nascita delle immagini nel sole dell'Arasse pareva tuffarsi nella maestosa perennità dell'attimo che fermò il sole sulla terra dell'Alleanza, a replica di quell'arco purpureo3 che sulle fertili pianure dell'Ararat, bagnate dalle acque d'Arasse – fiume da taluni ritenuto edenico alla guisa del cugino maggiore Eufrate, dalle sorgive attigue – segnò, dopo il diluvio universale, la riconciliazione cosmica e il richiamo a vita dell'armonia spezzata.
Mi colpiva quell'incipit anche, e forse soprattutto, perché cominciava a rendermi trasparente il diaframma, che nonostante le buone intenzioni, si ergeva tra me e il nuovo ambiente universitario in cui stavo in quegli anni per immergermi e che non mi era stato mai familiare prima di allora. Provenivo infatti da un curriculum di studi per cui mai, prima, avevo messo piede in un Ateneo italiano, in veste né di discente né di docente. E non poche cose non ingranavano bene o affatto con quanto mi era più consueto, dalle istanze più banali fino ad alcune anche notevolmente serie. Per darne un solo esempio: il fatto che l'Università in quegli anni dipendesse in tutto dal Ministero della Pubblica Istruzione, contrariamente alle istituzioni di alcuni altri paesi, persino medio orientali, ove l'autonomia universitaria, sempre in quegli anni, era intesa anzitutto non sul piano economico-finanziario, né su quello riguardante i rapporti interuniversitari, né tanto meno su quello delle privatizzazioni, ma come affermazione di uno statuto peculiare rispetto alla sfera dell'istruzione primaria e secondaria. Qualcosa di analogo in tal senso, sebbene con non indifferenti tentennamenti, si ebbe pure in Italia in anni successivi, ma negli anni Settanta che segnarono il mio primo incarico a Ca' Foscari l'assenza di un simile ordinamento mi stupiva non poco. E così via... In un tal clima, trovarmi ad un tratto sotto il sole dell'Arasse, trovarmi in una compagine orientalistica di cui il Prof. Scarcia era allora il simbolo e l'emblema, non poco contribuì ad innescare un processo di osmosi crescente con la realtà circostante. Cosa di cui gli riconoscerò sempre gratitudine.
Mi si rileverà forse che il mio discorso sta prendendo un'allure un po' troppo personalistica invece che di puntare su qualcosa di più obiettivo, di più analitico, di più "scientifico" nei riguardi della produzione caucasologico-armenistica di Gianroberto Scarcia?
Veramente ne sono ben consapevole. E me ne prendo la responsabilità. Stiamo diventando, direi purtroppo, avvezzi sempre più ad una certa qual impostazione, che non di rado si fa imposizione di indole super-egotica, per cui si ha quasi un senso non meglio precisato di pudore, allorché si tratta in particolare di accademici, universitari, scienziati, a parlare dell'uomo quasi si gettasse, così facendo, qualche ombra sull'alone di gloria accademica dell'interessato. Non penso che sia giusta siffatta attitudine. In fin dei conti, chiunque abbia un'adeguata preparazione scientifica e, ovviamente e più ancora, sufficienti criteri di giudizio, potrà facilmente farsi un'idea ed una valutazione appropriata della produzione scientifica in questione prendendone opportuna conoscenza. Mentre rimane il rischio che alcuni pregi dell'uomo – accogliendo tale termine nel senso più ampio per includervi la figura pure dell'insegnante, dell'operatore, dell'amministratore, dell'organizzatore e così via – restino in ombra, senza mai venire alla luce nell'immediato. E tali pregi possono talora contenere degli insegnamenti perfino superiori a quelli codificati per scritto in tanti e validi, validissimi articoli e libri. Senza perciò alcuna scelta esclusivistica, mi pare comunque doveroso soffermarmi nelle presenti righe anche sull'uomo Scarcia, certo con particolare riguardo a quanto lui fece ed operò per promuovere a Ca' Foscari gli studi subcaucasici ossia, in termini equivalenti più tradizionali, caucasici e armenistici.
Non vi è dubbio che Gianroberto Scarcia sia uno dei maggiori iranisti e islamisti italiani, e accanto all'iranistica e islamistica, sue aree privilegiate d'indagine e di prevalente approfondimento scientifico, abbia avuto pressoché in tutte le aree limitrofe dell'immensa oikumene iranica di cui è venuto ad occuparsi delle intuizioni stimolanti, profonde, originali. Così nell'ambito turcologico, come in quello subcaucasico. Mi soffermerò su quest'ultimo.
Sarà sufficiente un excursus, anche rapido, sulla produzione del Prof. Scarcia riguardante più direttamente l'area subcaucasica, per rendersi conto di quanto detto. Fin dal primo articolo che trattava dello Zurvanismo sub-caucasico, presentato come comunicazione al Primo Simposio Internazionale di Cultura Transcaucasica (Milano-Bergamo-Venezia, 12-15 giugno 1979)4 fino all'ultimo, corposissimo, su Cosroe Secondo, San Sergio e il Sade, apparso nel 20005, si assiste ad un susseguirsi di testi-scenari – giacché è una prerogativa della scrittura scarciana, che meriterebbe tra l'altro un discorso e uno studio a parte, la ‘scenicità' persino nei procedimenti più ‘filologici' – di una erudizione che forza i limiti, di un approccio al tema empaticamente interiorizzante, di uno sguardo comparativo sensibile non solo alle aree limitrofe bensì pure ai fenomeni tipologicamente affini, di disquisizioni precise oltre che spesso minute e sottili nel miglior senso del termine, di analisi acute, di soluzioni sempre ponderate anche quando sorprendenti ed ancora discutibili; e il tutto in uno stile personalissimo, di robusta complessità, di elevato tenore letterario, indulgente a volte a qualche preziosità che non tradisce però la raffinata sensibilità estetica dell'autore.
Tale sensibilità estetica si rivela poi in modi e tonalità sublimi nelle versioni poetiche di Scarcia sia in quelle curate da lui stesso direttamente sui testi originali, come nelle versioni dal persiano, sia in quelle eseguite a quattro mani in collaborazione con lo specialista di lingua, com'è precisamente il caso, nell'ambito caucasologico, della traduzione di tre poemi/poemetti del grande poeta georgiano Vazha Pshavela, curata in collaborazione insieme al kartvelologo Prof. Luigi Magarotto6. Se volessimo esprimere in modo conciso ciò che distingue e qualifica tali versioni, ciò che in esse colpisce di più caricandole di un fascino irripetibile quale si staglia appunto ogni opera d'arte, diremmo che tale caratteristica sarebbe da ricercare in quella trasfigurazione, travolgente, della parola, del verso, della lingua, ovviamente di arrivo, come tale, che determina la forma poetica di queste traduzioni: quasi a rammentarci quella ‘deviazione' o ‘straniamento' del linguaggio comune di cui parlavano i formalisti russi oppure il celebre ‘écart' della poetica valéryana.
Se dagli aspetti formali ed estetici della produzione scarciana passiamo ai compimenti scientifici di maggior rilievo, penso che nel dominio subcaucasico uno dei maggiori contributi del Prof. Scarcia sia stata la peculiare attenzione volta a ‘scoprire', delineare, precisare e definire le profonde interazioni e la reciproca permeabilità tra mondo iranico e mondo subcaucasico. Non per caso o per vezzo di ridondanza ho fatto ricorso, come appresso si capirà, a quattro verbi che troppi potrebbero sembrare, più o meno ripetitivi.
Si potrebbe infatti dire: niente di particolare o, almeno, niente di eccezionale nel lavoro svolto da Scarcia! Le interazioni e la permeabilità tra i due mondi in oggetto è cosa ampiamente e da lunghi tempi risaputa e confermata tra gli addetti!
È vero. Nessun dubbio che fosse così lo status quo della ricerca in merito quanto all'assetto generale del rapporto tra i due mondi, con il beneficio delle varianti quanto ad accentuazioni ed enfasi tra i vari studiosi. Ma il fatto è che la nostra visione di quell'assetto generale si è notevolmente arricchito grazie al meticoloso lavoro svolto dallo Scarcia su singoli argomenti rimasti in margine o sfuggiti all'attenzione.
Tale impostazione puntuale e concreta si manifesta in termini e con consapevolezza inequivocabilmente chiari fin dal suo primo specifico contributo in tema: sullo zurvanismo subcaucasico. Così egli vi esordisce: "Diciamo dunque subito che non vogliamo tenerci né sul piano strettamente tecnico di un contributo filologico... né su di un piano genericamente tematico. Ché, in quest'ultimo caso, se per zurvanismo solo dualismo iranizzante intendessimo... il discorso sarebbe... già abbondantemente fatto se pur certo non esaurito né scontato".
"Intendiamo invece indicare una vera e propria "novità" zurvanita, e cioè i segni di un'identificazione, che pare essersi data, tra il più noto patrono dell'Ararat, il biblico profeta Noè, e quell'aspetto evemerizzante di Zurvān che è rappresentato da Zāl... l'appena un po' meno noto eroe dell'epica persiana"7.
Tale impostazione e consapevolezza accompagnerà Gianroberto Scarcia lungo l'intero percorso del suo itinerario di studioso e sarà certamente la nota dominante della sua produzione caucasologico-armenistica, anche se quantitativamente non cospicua: sette articoli di circa cento venticinque pagine complessive, ai quali va aggiunta la versione, come detto, in collaborazione con Magarotto, del Pshavela.
Un altro merito particolare da sottolineare in questo filone di ricerca è il suo equilibrio che vorrei sottolineare qui con speciale riferimento al mondo armeno. L'armenistica infatti fin dai primordi ebbe esimi cultori dei rapporti armeno-iranici e furono non pochi gli armenisti di notevoli competenze iranistiche e viceversa. Non resta però meno vero che fin dalle origini ci fu in questi settori e i rispettivi cultori una continua tentazione di voler concepire e spiegare l'Armenia quasi unicamente attraverso i suoi plurimi rapporti col mondo iranico, considerandone poi le interazioni come provenienti in senso univoco dall'area contigua verso l'Armenia, come spesso succede peraltro nei riguardi dell'Armenia, anche nel raffronto con altre culture ed aree, da parte dei rispettivi specialisti. L'esempio più clamoroso di siffatto atteggiamento era dato dall'ipotesi originaria sull'indole della lingua armena che, a causa dei numerosi prestiti iranici, la considerava semplicemente come ‘dialetto iranico' finché il grande linguista tedesco Heinrich Hübschmann sfatò, nel 1875, detta ipotesi con prove rimaste inconfutabili dimostrando la collocazione dell'armeno, nell'ambito delle lingue indoeuropee, come un ramo indipendente a sé stante.
Per quanto Gianroberto Scarcia abbia sviluppato un'alta consapevolezza degli intimi nessi tra i mondi iranico e armeno, egli sempre rigorosamente si attenne ai singoli casi specifici studiati derivandone le debite conclusioni, ma si astenne scrupolosamente da indebite generalizzazioni, da approcci ignoranti, escludenti o comunque menomanti altre aree d'interazione e da visioni unilaterali del reciproco relazionarsi armeno-iraniano. Un atteggiamento questo, degnamente scientifico, che purtroppo non possiamo considerare scontato neppure ai giorni nostri, nonostante i quasi duecento e più anni trascorsi dalle origini dell'armenistica e iranistica moderne. Anzi, persino in anni recenti, non sono mancati, tra studiosi armeni e non, dei tentativi di riduzione delle radici e degli sviluppi del popolo armeno e della sua civiltà unilateralmente in un verso o nell'altro.
Se notevole è il contributo di Gianroberto Scarcia alla caucasologia e all'armenistica contemporanee, penso che sia ben maggiore e fondamentale il suo ruolo come uno dei capisaldi, sul piano universitario-amministrativo, dell'odierna caucasologia e armenistica italiane.
Un primo tratto da rilevare nell'operatore della cultura e della scienza, nel militante accademico, nel responsabile universitario Gianroberto Scarcia è la sua immensa voglia, la sua sconfinata ambizione per la coltivazione di settori disciplinari ritenuti in genere – assai superficialmente e alquanto biecamente, si deve pure convenire – irrilevanti o semplicemente ignorati-.
In un momento, soprattutto, in cui la congiuntura di mentalità, idee, progetti sennonché di prassi autorevoli è decisamente avversa, quanto alla programmazione universitaria, alle cosiddette discipline minori e alle lingue e culture di paesi e popoli ‘marginali' ovvero riguardati tali, neppure il più convinto e duro contestatore, tra colleghi e persone interessati all'orientalistica e in particolare alle discipline della nostra area, di certune scelte discutibili del Prof. Scarcia in quegli anni lontani in cui egli si apprestava a forgiare l'animo e il corpo dell'allora Seminario di Iranistica di Ca' Foscari, non potrà non riconoscergli, credo, e l'apertura dell'orizzonte mentale e l'envergure di spirito, la fecondità d'idee così come una lungimiranza quasi profetica. Coi tempi che corrono a chi sarebbe infatti passata per la testa, o se fosse per miracolo passata, chi avrebbe ardito di proferire l'idea di creare una cattedra di armeno o di georgiano? Nel caos odierno, per il momento più che cosmogenetico (auspicherebbe il cuore che col tempo si trasformasse in tale!), quasi apocalittico del sistema universitario – e non solo nostrano –, in cui si susseguono a ritmi sostenuti parti e aborti di idee e ideuzze, di progetti e progettini, di riforme e riformette, forse l'unica scelta possibile, promettente qualche futuro, sarebbe quella di professare perenne gratitudine a chi, con maestosa benevolenza, non deciderà di chiudere le ‘inutili' cattedre e rispettive discipline con meno di dieci studenti o di qualche altro contingente prefisso a tavolo, con chiarezza e forza decisionali degne di sovrani.
Si collocano certamente agli antipodi, l'una rispetto all'altra, la scarciana concezione dell'Università (e qui il maiuscolo sarebbe d'obbligo) quale luogo di sintesi tra ricerca e didattica, anzi di didattica figlia dalla ricerca – ché senza ricerca è solo chimera qualsivoglia didattica universitaria, se non la si vuol umiliare a livelli collegiali o liceali –, e la corrente concezione vulgata, di travolgente impatto perfino su molti tra gli spiriti più indipendenti e profondi, alla convulsa ricerca di una didattica che, coi ritmi in atto, potrà finire per togliere anche quegli spiccioli di spazio temporale che restano ancora qual possibilità di riscatto ai ricercatori più accaniti, sperando che a nessuno venga la voglia, oggi o domani, di considerarli incalliti.
In un sistema di paesi, ed è il caso anche di molti paesi europei, inclusa l'Italia, in cui mancando, e mi riferisco alle scienze umane in particolare, una grande e portante struttura di ricerca – quali sarebbero, ad esempio, le Accademie dell'ex Unione Sovietica lasciate ora per lo più alle proprie sorti di lento/rapido declino, o in Europa quella della vecchia ma in ciò gloriosamente imperiale Austria, e per certi versi il cnrs francese e simili –, l'Università rappresentava effettivamente e dovrebbe continuare a rappresentare l'unico polo di ricerca avanzata, la tendenza, piuttosto l'andazzo, o se a qualcuno piace meglio, per essere più comprensibili, il trend attuale potrebbe risultare deleterio, a meno che non si provveda tempestivamente e creativamente alla plasmazione di nuove strutture di ricerca efficienti.
L'indebolimento delle discipline in oggetto nel polo universitario non può certamente essere decontestualizzato dall'intero processo, per certi versi lodevole e promettente, di appoggiare la ricerca al sostegno privato. Ma due momenti critici sfuggono purtroppo ai promotori di tale processo: a) le discipline minori e deboli in questione difficilmente interesseranno al capitale privato, se non per motivi sporadici, talora esotici, come ad esempio il richiamo di radici etniche o altri interessi particolari; b) dato che siffatti interessi esistessero pure, non sempre l'interessato sarà stimolato a procedere per il mancato riconoscimento della deduzione fiscale in simili casi, contrariamente a quanto avviene ad esempio negli Stati Uniti, il paese, per antonomasia, delle sponsorizzazioni private, ove qualsiasi donazione a qualsivoglia ente riconosciuto che non abbia finalità di lucro è di per sé deducibile.
Penso che la grande lezione da ricavare, in ogni caso e sotto qualsiasi ipotesi, dall'azione del Prof. Scarcia come operatore di cultura universitaria, sia quella che un grande e ricco paese come l'Italia, la quale figura tra i paesi economicamente più avanzati, e una nazione come quella italiana, la cui storia di cultura, scienza e ricerca è certamente tra quelle di primo piano a livello mondiale, non possono lasciare all'azzardo le sorti della propria cultura, scienza, ricerca, Università, o rassegnarsi alla mediocrità di livelli o ad una presunta povertà di mezzi, qualunque siano poi le scelte concrete da fare, i piani d'azione da applicare, i mezzi di sostegno da destinare: statali, privati o misti.
Certamente non si può fare a meno, come sempre, anche nella presente problematica, di una scala di priorità da stabilire. Date però le premesse appena enucleate sul paese Italia e sulla rispettiva nazione, tale scala di priorità non può avere come primo né tanto meno come unico criterio la preoccupazione economica, intesa giusta i parametri di un'amministrazione aziendale senza alcun imperativo, e aggiungerei ‘categorico', di valori culturali e scientifici. Lo stesso Prof. Scarcia nel promuovere il suo progetto dell'orientalistica veneziana, nell'ambito del ‘suo' Seminario di Iranistica, partiva dal presupposto, assunto come principio e guida d'azione che a Venezia andavano attivate tutte le lingue orientali con i cui popoli e culture Venezia è venuta a trovarsi, nel corso della sua storia, in rapporti e scambi privilegiati. Mi suona nelle orecchie ancor oggi, come se venisse proferita ora, la sua battuta: "se non s'insegna a Venezia, l'armeno dove s'insegnerà?".
Non potrei porre termine a queste scarse righe su Gianroberto Scarcia uomo, studioso, operatore di cultura e di scienza, pioniere d'idee e d'azione, senza menzionare un altro aspetto della sua polivalente figura il quale, ancor oggi, mi pare degno di rilievo e di pregnante esemplarità. Mi limito ad un singolo fatto, senza pretese generalizzanti, ma vorrei rivalutarne il forte messaggio.
Correva l'anno 1975 quando egli, personalità già ben nota non solo per i meriti scientifici ampiamente e giustamente riconosciuti, ma anche per le proprie convinzioni, iniziò all'interno della Facoltà di Lingue la sua campagna per la concessione di un incarico di armeno ad una persona estranea sia alla propria ‘scuola' di derivazione che a quella in formazione, e per di più un prete. Non sarà un mistero per nessuno che abbia un minimo di conoscenza, tanto più di esperienza di quegli anni, la portata insolita, anzi quasi ‘scandalosa' – per i vari schiarimenti di fronte – di una simile scelta. Ma non solo di quegli anni si tratta! Certo, se il fattore politico-partitico era allora un criterio di ‘valutazione', sovente, di primaria importanza, i criteri attinenti alla categoria di ‘parte', nella sua indefinita ed inesauribile varietà, dalla ‘scuola' al ‘campanile', da motivazioni di gruppo a quelle personali, non è che abbiano fatto il loro tempo.
Non vorrei dilungarmi oltre su questo punto né aggiungere ulteriori commenti, giacché sarebbe tempo perso per chi fosse convinto della logica di parte, anche se in maniera solo sottesa, e sarebbe fatica superflua nei riguardi di chi ne sia invece un convinto oppositore. Posso anzi aggiungere una testimonianza di poco anteriore a quella data: un responsabile di alto livello di un noto istituto nazionale, avendo visionato il mio curriculum, ai fini di una eventuale selezione, dopo aver espresso "le più vive congratulazioni per i successi riportati sia da noi che in patria", aggiungeva schiettamente e con esemplare onestà e correttezza: "preferiamo però accreditare i candidati cresciuti alla nostra scuola". Dico onestà e correttezza, in quanto l'atteggiamento in questione, pur non superando tutti i limiti di parte, li mantiene però entro i confini di quanto la mente anglosassone definirebbe politically correct, e dista certamente di parecchio dagli astrusi meccanismi e macchinazioni di cui non di rado diventano teatro i nostrani ‘concorsi nazionali'. Non vi è certo alcun sistema esente da rischi, e spesso il merito da solo può non offrire un criterio sufficiente per scelte ove inevitabilmente entrano in giuoco altri e plurimi fattori contestuali, come i raggruppamenti disciplinari – seppure arbitrari non di rado, ai limiti di non-scienza talora – o particolari esigenze d'indirizzo. Una lezione in ogni caso valida resta comunque quella di poter superare ogni tipo di logiche di parte, e qualora ciò sembrasse troppo arduo o inaccessibilmente ‘eroico', di attenersi ai dettami di quanto è almeno politically correct.
"Così nascono le immagini anche nel sole dell'Arasse...". L'emozione di quel radioso pomeriggio di giugno del '79, oggi, a distanza di quasi un quarto di secolo, non è meno viva, ma è certamente molto più interiorizzata, pensata e ponderata, più robusta e densa di esperienze, contenuti, idee e fatti.
Abbiamo vissuto uno scorcio di secolo che è stato significativo, ha senza alcun dubbio segnato una svolta negli studi caucasici e armenistici in Italia8. Svolta ispirata, promossa, determinata, animata da più persone operanti in vari centri e su tragitti diversi, da Roma a Milano, da Bologna a Venezia.
Per quanto concerne Venezia, il ruolo di Gianroberto Scarcia vi è stato sostanziale e fondamentale nella sua veste di promotore e iniziatore: come di chi getta le basi, apre le porte, crea l'opportunità e le possibilità. A questo ruolo fondamentale egregiamente si è associato quello dello studioso che esplora, indaga, costruisce e ricostruisce, ma che cerca soprattutto di percepire "il sangue, o la linfa, che circola un po' dappertutto"9, i flussi vitali che scorrono nelle vite dei popoli, come vene invisibili che irrorano le falde sotterranee di quell'immensa oikumene che sono i popoli stessi, le loro culture e civiltà.
È la ricerca, rinnovata nel tempo e nei modi, condotta con strumenti prettamente moderni e critici, di quell'Arca perduta, simbolo dell'unità e dell'armonia primordiali, che permea leggende e fiabe, che è essa stessa a tutt'oggi mito e leggenda viva, le cui tracce però non furono mai del tutto perse, il cui fascino soterico mai del tutto si spogliò della sua forza rigeneratrice.
La passione che permea la vita e l'opera di Gianroberto Scarcia nello studio dell'oikumene iraniana, dalle steppe della Centrasia alle catene del Caucaso e alle acque dell'Arasse, è passione di ricerca di quell'Arca perduta, ma di vista mai persa.
1 Bastām e la stirpe dei Draghi, in Transcaucasica II, (Quaderni del Seminario di Iranistica, Uralo-Altaistica e Caucasologia dell'Università degli Studi di Venezia, 7), Venezia 1980, p. 82.
2 Per ‘Subcaucasia' intendo il Caucaso meridionale, noto anche col nome di Transcaucasia, più le regioni a sud e a sud-ovest di quest'ultima costituenti l'Armenia storica, con propaggini sino alla Mesopotamia superiore a sud e il corso superiore dell'Eufrate ad ovest. Il vantaggio offerto dal termine è che, a differenza di altri termini di carattere regionale, come Caucaso, Caucaso del Sud, Anatolia, Est Anatolia ecc., che non arrivano a contenere l'intera realtà storica dell'Armenia insieme alla Georgia e all'Albania caucasica, esso abbraccia invece con un unico sguardo sia l'area sudcaucasica che quella estanatolica. Mi permetto di rinviare per dettagli al mio Lo studio delle interazioni politiche e culturali tra le popolazioni della Subcaucasia: alcuni problemi di metodologia e di fondo in prospettiva sincronica e diacronica, in Il Caucaso: cerniera fra culture dal Mediterraneo alla Persia (secoli IV-XI). Atti della Quarantatreesima Settimana di studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo (aprile 1995), t. I, Spoleto, 1996, pp. 433-434, 441-443. Si badi a non confondere il sub-caucasico, nel senso or definito, con il sud-caucasico che denota invece la parte meridionale del Caucaso ossia la classica Transcaucasia dei russi, divenuta in seguito denominazione comune anche nelle lingue dell'Europa occidentale nonostante la prospettiva tipicamente russa del trans- nel guardare verso il Caucaso.
Il Prof. Scarcia fu il primo ad accogliere il termine ‘Subcaucasia', proposto dallo scrivente, seguito da Jean-Michel Thierry, Giulio Ieni ed altri. Cfr. G. Scarcia, Zurvanismo subcaucasico, in Zurvan e Muhammad. Comunicazioni iranistiche e islamistiche presentate al Primo Simposio Internazionale di Cultura Transcaucasica (Milano-Bergamo-Venezia, 12-15 giugno 1979), (Quaderni del Seminario di Iranistica... cit., 2), Venezia, 1979, pp. 15-21; J.-M. Thierry, Les tétraconques à niche d'angle (Étude typologique d'un groupe d'Églises subcaucasiennes), "Bazmavep", CLVIII (1980), pp. 124-179; G. Ieni, Il problema delle arcate cieche nell'architettura monumentale del X-XI secolo. Rapporti fra Oriente e Occidente, in L'arte georgiana dal IX al XIV secolo, I, a cura di M.S. Calò Mariani, Galatina, 1986, p. 65, n. 51.
Sul concetto di ‘Armenia storica' e per una sua corretta definizione ed uso, cfr. l'appena citato Lo studio delle interazioni politiche e culturali tra le popolazioni della Subcaucasia, pp. 443-444.
3 In armeno per arcobaleno si dice tzirani goti ‘cintura purpurea'. Sul significato e la funzione del porpora nei miti fondanti e nel folklore dell'Armenia, mi permetto di rinviare al mio La porpora in Armenia tra mito, folklore, arte e religiosità: dall'inno di Vahagn al bolo armeno, in La porpora. Realtà e immaginario di un colore simbolico. Atti del Convegno di Studio, Venezia, 24 e 25 ottobre 1996, a cura di Oddone Longo, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 1998, pp. 276-297.
4 In Zurvan e Muhammad, cit. n. 2.
5 In "Studi sull'Oriente Cristiano", Miscellanea Metreveli, 4 (2000), 2, pp. 171-227.
6 Važa Pšavela, L'uomo che mangiò carne di serpente e altri poemetti, a cura di L. Magarotto e G. Scarcia, Campanotto Ed., Udine mcmxcvi.
7 Zurvanismo subcaucasico, cit. n. 2, p. 15.
8 Per qualche dettaglio si veda, per il settore armenistico in particolare: "Introduzione" a Ar Druns Italioy. Ad limina Italiae. In viaggio per l'Italia con mercanti e monaci armeni, (Eurasiatica 37), a cura di B.L. Zekiyan, Padova 1996, pp. 13-16; "Prefazione" a Gli Armeni lungo le strade d'Italia. Atti del Convegno Internazionale (Torino, Genova, Livorno, 8-11 marzo 1997), Giornata di Studio a Livorno, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1998, pp. XI-XII.
9 Mutuo questa espressione a G. Scarcia che l'adopera in un contesto diverso, parlando degli Armeni e delle loro aperture universali, che sono ‘storia' e "non certo... vocazione o privilegio innato": Armeni tra Oriente e Occidente, in Tra passato e presente: Cinema dall'Armenia, Comune di Venezia, Ufficio Attività Cinematografiche, Venezia 1983, pp. 107-109.